Ho visto l’inferno

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Colline verdi, ampie, distese nel sole sotto un cielo di un azzurro terso, reso opaco solo nelle ore di calore intenso, colline belle, coperte nel passato da conifere e arbusti, che richiamano verdi pascoli di altre terre. Nel fondo valle del Jainthia Hills (Meghalaya) si alternano le colture delle risaie, dal verde smeraldo, a quello piu’ tenue dei giovani germogli, o all’argenteo quando le pianticelle sono coperte dalle acque, al giallo chiaro del riso che incomincia a biondeggiare. Piccoli rettangoli a terrazze, che sfruttano tutta l’umidità del suolo o bevono l’acqua dei pochi ruscelli pazientemente incanalati dai coltivatori per cui il riso è vita.

Queste colline oggi sono state messe a nudo, per meglio penetrare il tesoro che portano nelle loro viscere.
Un buco nella collina, tanti buchi nelle colline, tunnel completamente oscuri che si inoltrano per circa 200 metri nelle profondità della terra, uomini, bambini, giovani, ore e ore in quei buchi senza aria e senza luce, scavando con mezzi rudimentali per estrarre carbone. Un carbone estratto e accatastato a mani nude. Devono essere magri, piccoli, snelli i lavoratori perché si avanza coricati, si lavora sdraiati, si riempiono ceste e ancora ceste di carbone. Altre mani si protendono sull’orlo del buco per afferrare le ceste e rovesciare il minerale nero in tanti cumuli che poi saranno trasportati da carrette in aree accessibili ai camion.

Ho visto camminare uomini, donne, ragazzi e bambini barcollanti, ubriachi di polvere, di buio, di fatica. Occhi vuoti, volti scavati, sorriso spento in una smorfia di sopportazione, li ho visti crollare nell’erba, privi di forza, di vigore, o seduti appoggiati a un tronco, o a una roccia, a due, a tre, senza parole, assaporando una sigaretta, sovente di “erba”, per stordirsi, per dimenticare. Nel tramonto del sole si vedono i loro corpi nudi, lungo le piccole riviere o le sorgenti, bianchi di sapone, mentre con energia cercano di staccare dalla pelle l’involucro di carbone.
I primi oggi a scendere nei buchi sono i nepalesi, i più miseri degli immigrati, piccoli, secchi tutto un fascio di nervi. Ho visto i loro tuguri: migranti del lavoro non vogliono case, non cercano stabilità. Molti migrano da soli, altri con tutta la famiglia. Abitano in minuscole capanne di bambù ridotte a un solo locale, avvolte da plastica blu i cui strappi non difendono né dalla pioggia, né dal freddo della notte, né dagli insetti o dai serpenti. Li incontri anche lungo le strade, nei depositi di carbone, sherpa senza montagne, portando appesi alla fronte e sospesi sulle spalle pesi incredibili: carbone, granito frantumato, sabbia … E ti chiedi dove è nascosto il loro spirito di uomini per non gridare, per non ribellarsi.
Le verdi colline, così lavorate da circa 100.000 persone, diventano sovente anche tomba per chi le penetra. Allora la collina si costella di croci minute, di steli in pietra, di piccoli monumenti indù, o buddisti, o di religioni animiste. Ricordo di chi è rimasto sotto terra, sotto un crollo, o di chi vi è rimasto asfissiato, o di chi semplicemente e’ crollato sotto il peso di un lavoro che non ha nulla di umano o è stato devastato dalla tubercolosi. Di carbone si vive perché procura certamente denaro, ma soprattutto di carbone si muore.
Mi informo sull’organizzazione dello sfruttamento delle miniere. E’ difficile avere notizie precise. Sembra che pochi ricchi acquistino la proprietà di grandi estensioni di terreno e che poi facciano sfruttare manualmente le riserve più superficiali del carbone. Ogni giorno 3.000 camion arrancano stracarichi sulle strade che portano a Shillong, a Gwahati, a Calcutta. Anche questi sono caricati manualmente: donne e ragazzi riempiono con le pale i cestini che poi gli uomini ponendoli sulla testa scaricano nel camion salendo una scala rudimentale di bambù. I lavoratori, estrattori e caricatori individuali o in gruppo sono pagati a fine giornata. Attendono in fila, davanti a una finestrella con inferriata, dove una mano registra la quantità del lavoro fornito e distribuisce il salario: in media gli adulti ricevono 250 rupie al giorno, cioè 4 dollari.
Sembra anche che il Governo voglia mettere fine a questa estrazione primitiva, adducendo troppi problemi di salute e di inquinamento. Altri pensano piuttosto a una volontà di sfruttamento in profondità con mezzi tecnici più moderni, ma che ridurranno il bisogno di mano d’opera locale.
Altri ancora parlano di prospettive più lucrative con possibili giacimenti di petrolio. Dove sarà la verità?
Intanto innumerevoli vite sono state sacrificate, i bambini privati della loro infanzia e i minori rovinati da fumo, da droghe, da alcool che soli aiutano a sopravvivere nell’inferno. La promiscuità ha tolto ogni riserva morale e non solo le donne sono preda di sfruttamento sessuale, ma tanti ragazzi si danno a uomini senza scrupolo per poche rupie.
Eppure anche nell’inferno ci sono sprazzi di speranza. Nella scuola delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel villaggio di Raliang trovo molti figli di nepalesi: i genitori sanno che per loro non c’e’ futuro, ma ne vogliono invece uno diverso per i figli. Anche gli allievi e allieve piu’ grandi (12-18 anni) dopo la scuola scendono nei buchi o caricano i camion, ma poi sono fedeli alle lezioni. Uno dei ragazzi terminata la 10° (2^ ginnasio) si è impegnato a tempo pieno nell’estrazione del carbone e paga la scuola per il fratello e per la sorella minori, perchè loro non scendano nei buchi. Sono segni di futuro, dove la speranza corre sui libri, perché né televisione, né internet giungono nel cuore dell’inferno.
Allora benedetta questa scuola, al fondo della Valle del carbone. Scuola non terminata, ma ben avanzata, senza acqua, che necessita quindi di un pozzo. Bisognerà scendere oltre gli 800 metri di profondità, perché l’acqua sia potabile.
Benedette queste 6 sorelle che consacrano la loro vita per i figli dei minatori, con un centinaio di ragazzine in casa-famiglia e circa 400 tra allievi e allieve.
Alla scuola di Raliang è annesso un dispensario dove una Figlia di Maria Ausiliatrice infermiera offre consulenza, cure, medicine e conforto a bambini e adulti, senza temere il contagio di tubercolosi, AIDS, dissenterie e altre piaghe sociali.
L’amore anche qui è più forte della desolazione e della disperazione.